Apparsi alla ribalta alla fine degli anni ’70, gli oggetti frattali sono in realtà oggetti del tutto virtuali, grafici di funzione a tutti gli effetti. Il loro merito però è quello, oltre che generare immagini abbastanza affascinanti, di descrivere in modo particolarmente completo una caratteristica fondamentale della natura: l’autosomiglianza.
Benoit Mandelbrot (lo scienziato che rese famoso l’omonimo Insieme), partì dall’osservazione di una costa marina durante un trasferimento aereo. Egli notò infatti che la costa vista da grande altezza era sostanzialmente identica alla linea della risacca vista da terra.
Da lì partì la sua ricerca dato che l’autosomiglianza era cosa già nota ma mai esplorata matematicamente. Mandelbrot aveva dedicato le sue ricerche allo studio del caos e ancora oggi le sue formule sono alla base di questa teoria.
Tuttavia gli oggetti frattali hanno anche un altro merito: quello di aver aperto la porta ad una teoria relativamente recente, derivata dalle tante originatesi dalle nuove frontiere aperte dalla fisica quantistica degli ultimi 25 anni, ovvero quella dell’universo olografico.
Questa teoria, ancora tale ma che porta a supporto già un congruo numero di studi matematici, sostiene la natura autosimile del nostro universo. Ovvero, in qualunque punto di esso sarebbero comunque contenuti, anche se non tutti in forma manifesta, tutti i principi che ne reggono la totalità.
Allo stesso modo di un ologramma in cui anche solo un frammento dell’originale, per quanto piccolo, riporta la totalità dell’immagine rappresentata, il nostro universo presenterebbe la totalità di sé stesso anche nella sua più piccola porzione.
In termini di pura speculazione mentale, questa teoria trova una logica completa in sé. Prendiamo la totalità dell’Universo; tutto ciò che esiste, sia in forma manifesta che potenziale. Questa unità non può che contenere tutto, cosa che al contempo garantisce che nulla possa esistere al di fuori di essa.
Ma se nulla può esistere al di fuori, allora tutte le sue parti devono contenere il tutto, altrimenti esisterebbero dei punti di questa totalità che non corrisponderebbero nella sostanza ad essa.
Quindi ogni parte del nostro universo non può che contenerne l’intera essenza.
Dal punto di vista filosofico, religioso e di tutte le vie realizzative del pianeta, questo enunciato è riconosciuto da sempre: “Tutto è uno”. Lo dicono in India, in Giappone, in Cina, in Tibet, in America Latina e in ogni parte del medio oriente e dell’Africa.
E a ben vedere, anche le due principali religioni monoteiste, pur a denti stretti, non possono che ammettere che nulla può esistere al di fuori di Dio, infinito per definizione.
Un’osservazione di questo tipo ricopre notevole importanza, non solo culturale. Essa ci consente infatti di denotare come l’apparente distanza che da sempre divide la scienza da religioni e filosofie, stia sempre più accorciandosi.
Già la fisica quantistica, al suo apparire sulla scena, aveva costretto uno dei più grandi pensatori (se non il più grande) dell’epoca, ovvero Albert Einstein, ad arrendersi dopo una fiera resistenza all’esistere di dimensioni considerabili solo da un punto di vista immateriale.
Oggi, a distanza di decenni, le ultime ricerche di frontiera continuano a generare teorie e perfezionamenti delle stesse che tendono ad ampliare sempre di più i ristretti orizzonti della scienza classica.
Anche il cosiddetto “metodo scientifico” sta lentamente sgretolandosi, di fronte alla propria inadeguatezza. Un metodo che in sé non avrebbe nulla di male se non fosse diventato il sistema preferito da certi ambienti per tenere alto il vessillo di un negazionismo tanto ottuso quanto rigido, basato esclusivamente su prove strumentali che, guarda caso, non tengono mai in conto l’inadeguatezza degli strumenti impiegati
Senza contare il fatto che tale negazionismo è spesso proposto ad esclusivo vantaggio di multinazionali o altre entità industriali che, essendo spesso le uniche in possesso di capitali adeguati alla ricerca in vari campi, come ad esempio quello medico, tendono frequentemente a pilotare i risultati delle ricerche da loro finanziate per la conservazione o l’aumento del proprio profitto.
Oggi però negare alcuni aspetti non materiali dell’universo è sempre più difficile, grazie anche al progressivo affinarsi degli strumenti utilizzati ma soprattutto all’opera di pochi ma caparbi ricercatori che, nonostante i mezzi limitati e la ristrettezza mentale (per usare un eufemismo) degli ambienti accademici ufficiali, continuano ad esplorare la realtà.
Il muro dell’ignoranza è sempre il più difficile da abbattere ma, nonostante questo, diverse crepe si stanno aprendo in esso in questi ultimi dieci anni. Gli oggetti frattali hanno dato il loro contributo in questo senso, pur se piccolo.
Ma come ben sappiamo, anche una piccola crepa può determinare il crollo di una diga.
Nel caso dell’ignoranza questo è particolarmente vero ma, anche se il numero di crepe necessarie a farla crollare definitivamente deve essere ancora raggiunto., il processo è iniziato e non è uno di quei processi facili da fermare: altrimenti non potrebbe chiamarsi evoluzione.
Francesco Amato