Imparando a meditare fin dalle scuole primarie, cosa accadrebbe alla generazioni future?
La pratica meditativa ha sfondato anche le barriere degli ultimi tabù pseudo-religioso-culturali ed è ormai ampiamente sdoganata ad ogni latitudine. Al di là di qualsiasi speculazione di tipo puramente didattico sul significato del meditare o sulla concezione stessa della meditazione, vorrei focalizzare su un aspetto apparentemente banale di questa pratica: l’indagine su di sé, conditio sine qua non per un corretto approccio, qualunque sia il grado di conoscenza e di approfondimento.
Senza questa chiave di lettura, la meditazione (o quello che per convezione chiamiamo tale) non ha effetti su chi la pratica. Ci si può sedere correttamente, in postura perfetta, si può controllare il respiro (forse) ma senza dubbio non si produce quell’atteggiamento mentale ed emotivo necessario a rendere la meditazione davvero efficace.
È dunque d’obbligo, al principio, imparare le basi, i fondamentali, insomma l’abc della pratica per riuscire a comprendere non solo cosa sia quello stato di coscienza che chiamiamo meditazione ma anche quali sono le tecniche per raggiungerlo. Ecco perché è auspicabile che diventi materia di studio a scuola. Perché i vantaggi, rispetto al tempo e alle risorse investiti, sarebbero (anzi sono) davvero incalcolabili.
In teoria, non possediamo grandi numeri, in termini statistici, che possano riferirci cosa accade a chi impara la meditazione a scuola, una volta adulto. A meno che non si voglia scendere a patti con il nostro ego occidentale e accettare che in alcune culture questo accade da secoli, e che – a ben guardare- i risultati sono palesemente (oserei dire, scientificamente) sotto i nostri occhi. Mi riferisco alla cultura della catena himalayana, solo per citare l’esempio più facile, e a tutti quei siddhi, guru, yogin e yogini, monaci di varia estrazione che hanno frequentato nei secoli e frequentano anche oggi scuole dove, insieme alla scienza, si impara la co-scienza. Caso a tutti noto, non foss’altro che per il film “Sette anni in Tibet”, è quello di Lhamo Dondrub, poi Tenzin Gyatso e meglio noto come il Dalai Lama.
Alcune scene del film narrano dei suoi studi e della sua insaziabile curiosità delle cose di scienza e tecnologia. Senza dubbio, però, quella dell’attuale Dalai Lama, così come quella di migliaia e migliaia di monaci e praticanti di varie discipline in tutto il mondo, è un’istruzione basata sull’indagine, dell’animo umano, in primo luogo.
Non fermiamoci all’aspetto spirituale della questione: qui si parla di persone, di individui attenti e ben presenti alla realtà in cui siamo calati ma che godono di un plus: quello di essere in grado di scandagliare l’aspetto interiore della loro natura e, in quanto parte integrante dell’umanità, anche della natura di ogni individuo.
E questo ci porta a una conclusione: se indago sulla mia natura di essere umano, va da sé che indago sulla natura di ogni essere umano. Ciò mi porta a notare come ogni essere umano sia interconnesso e interdipendente. Non aneliamo forse tutti alla gioia e alla felicità, rifuggendo la sofferenza? E se io realizzo questa interconnessione (cosa che accade solo per mezzo dell’indagine, nella meditazione), come posso offendere, umiliare, ferire o uccidere chicchessia?
Mi sembra una ragione più che sufficiente per inserire nei programmi scolastici di tutto il mondo la materia della meditazione. Che sia mindfulness, trascendentale, yogica, sciamanica, zen o altro poco importa. Ciò che conta è ciò che produce. È il migliore investimento che ogni cultura che si possa definire tale, possa mettere in atto per il proprio futuro.