“Mi fa male la pancia!”
“Canta che ti passa!”, diceva mia nonna. Qualsiasi malanno le raccontassi, lei rispondeva così. In effetti, lei lo faceva. Cantava sottovoce, e potevi sentirla solo se le eri molto vicino. Era affetta da sclerosi a placche e ha trascorso gli ultimi venticinque anni della sua vita tra la sedia a rotelle e il letto. Ma ogni tanto, nonostante i dolori, la fatica, la solitudine, la sentivi bisbigliare canzoni. Si ninnava col suono della sua stessa voce. Non la usava per lamentarsi, ma per canticchiarsi una nenia, come si farebbe con un bambino.
Poi, ogni tanto, mi chiamava e mi chiedeva di scrivere, sotto sua dettatura, una lettera al fratello emigrato in Argentina parecchi anni prima. Così, mi sedevo sulla mini-seggiola di paglia accanto al suo “trono” di legno intarsiato e trascrivevo sulla carta i suoi racconti al fratello.
Raramente gli parlava della sua malattia. Di solito, raccontava cose semplici: cosa mangiava, com’era il clima, episodi legati ai suoi figli e ai nipoti e poi, ricordi. Ricordava al fratello e a se stessa la vita di paese, quello in cui erano nati, e gli chiedeva di raccontarle com’era quella grande città, Mar del Plata, che le sarebbe piaciuto conoscere. Le lacrime, silenziose, le rigavano il volto, ma un sorriso a mezza bocca non le mancava nemmeno in quei momenti.
Io mi guardavo bene dal chiederle perché piangesse. Da qualche parte, dentro di me, sapevo che faceva parte del rito, che quello per lei era un momento sacro, inviolabile. Così, stavo zitta e scrivevo, felice di avere il privilegio di assistere a quel rituale.
Quando finiva di dettare, aveva una luce diversa nello sguardo, come se davvero avesse parlato con il fratello (che non vedeva da 30 anni o più), come se il fratello fosse stato lì a trovarla e avessero scambiato quattro chiacchiere davanti a una tazza di caffè.
Anche io mi sentivo più leggera e, nello stesso tempo, arricchita da racconti di vita straordinari, che comunque erano parte di me, non fosse altro che per trasmissione genetica. Scrivere aveva per noi un potere liberatorio. Se prima c’era rabbia, poi c’era serenità. Se c’era ansia, si trasformava in rilassatezza; se c’era ombra, poi rifletteva luce.
E così è ancora oggi, per me: un’eredità che non ha prezzo ma un valore inestimabile. Per questo, consiglio a tutti la scrittura, come strumento di trasformazione delle emozioni, per “aggiustare” gli stati d’animo che si sono rotti. Non importa essere scrittori patentati, non importa la sintassi né il grado di conoscenza della lingua. Importa far uscire ciò che deve, e regalarlo alla carta.
Sì, perché per completarsi in modo corretto, definitivo, totale, il rito deve essere compiuto come le mani e sulla carta, preferibilmente. La tastiera del computer va bene se proprio non potete farne a meno. Ma non è la stessa cosa, c’è un filtro che non rende possibile la completa trasformazione.
S poi, mentre scrivi, vuoi anche intonare una nenia sottovoce, fai bene. Il bambino dentro ne gioverà quanto l’adulto fuori.
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